Quell'illuso del Musón, il blog di Mario Antolini
Donne dimenticate delle Giudicarie... Dietro all'affermazione di ogni famiglia, di ogni comunità e di ogni popolazione, vi è sempre stata la presenza determinante di donne. Dal Blog di Quell'Illuso del Muson
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- Categoria: Quell'illuso del Musón
- Pubblicato Lunedì, 08 Maggio 2017 23:13
- Scritto da Giudicarie.com
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Nel chiuso della mia mansarda, dalla quale ormai non esco quasi più, sono venuto a sapere - grazie ai quotidiani ed a facebook - che nelle nostre vallate si sta per affrontare, da parte di un gruppo di persone, un progetto socio-culturale sull'ambizioso argomento: "Donne dimenticate delle Giudicarie". La notizia mi ha incuriosito e, nel contempo, assai rallegrato, poiché era da anni che serpeggiava nella mia mente il desiderio di dedicare qualche pagina a quell'infinita serie di donne che hanno costituito l'ossatura portante delle famiglie tradizionali giudicariesi; ossia di quelle donne che hanno contribuito, in maniera encomiabile e determinante, alla reale "costruzione" delle Giudicarie, facendole diventare una terra di lavoratori e di lavoratrici davvero esemplari ed eccezionali.
Penso spesso alla famiglia patriarcale giudicariese, nella quale era la donna il perno della casa; donne del passato, impegnate dalle prime ore dell'alba a notte fonda, a prendersi cura dei figli, della stalla, dei campi e dei prati e di un'infinità di altre mansioni domestiche e non. La mia mente va alle fanciulle di soli nove anni costrette a lasciare le Giudicarie per "andare a fare le serve" nelle città, subendo angherie e sofferenze mai narrate e mai fissate nei volumi degli storici. Ne ho conosciuta una di Ràgoli, che mi ha raccontato, a viva voce, di essere partita da Ràgoli a nove anni (dopo la terza elementare) per raggiungere Milano per "fare la serva", lungo la Val del Chiese e la Valsabbia e quindi da Brescia alla città lombarda, sempre e solo a piedi.
Vocabolo ignobile quello di "serva"! Ricordo di averlo pronunciato, da ragazzino non ancora decenne prima degli anni Trenta, rivolto ad una donna di servizio in casa mia; mio padre, ancora a letto, mi ha sentito ed è balzato fuori e mi ha dato un calcio nel sedere imponendomi di non ripetere mai più quella parola. Me ne sono ricordato da maestro di scuola elementare insegnando ai miei scolari a dimenticarla e a non pronunciarla mai, ed io stesso mi sono imposto di non usarla mai né a voce né per iscritto, ma qui l'ho dovuto usare per "rendere l'idea". Ho avuto poi modo - anche nei miei rapporti con l'Università della Terza Età - di conoscere avventure e sofferenza di donne che, dai 10 ai vent'anni, avevano dovuto subire una sudditanza, il più delle volte piangendo e dormendo nei sottoscala delle facoltose case dei ricchi borghesi, molti dei quali - le eccezioni ci sono state in positivo - incapaci di comprendere che le persone a loro servizio erano delle persone (a volte solo bambine) da rispettare e da aiutare.
Ma sono state proprio quelle fanciulle adolescenti - attraverso tanta generosa dedizione e tanta sempre sopportata e taciuta sofferenza provate e sopportate durante l'adolescenza e la prima giovinezza - che sono poi sbocciate in un fior fiore di donne, diventando quelle "donne di casa", prima madri di tanti figli e poi nonne di tanti nipoti, che si sono trasformate in veri artefici di quelle famiglie nelle quali sono nate e cresciute generazioni di uomini e di donne, dediti e dedite al lavoro sia in ogni paese delle nostre vallate, specie nelle stalle e nelle malghe, che nelle sempre sofferte emigrazioni affrontate con "tanta vóia dé vegnérghen fò!"; emigrazione nella quale la figura della donna ha sempre dominato a sostegno di uomini che si dovevano sacrificare nelle quotidiane fatiche del mestiere. Si dice che alle spalle di un uomo affermato in società vi è sempre una "grande donna." Mi viene da poter affermare che dietro all'affermazione di ogni famiglia, di ogni comunità e di ogni popolazione, durante tutti i secoli, vi è sempre stata e vi è la presenza determinante di donne che ne costituiscono la sostanziale base esistenziale.
Ho avuto l'opportunità, negli anni Trenta, di conoscere nonne - vere matrone, ognuna nella sua specifica situazione - che avevano vissuto nelle allora case dei contadini, senza alcuna comodità, caratterizzate dalle stalle, dalle "córt", dalle cantine e dai solai pieni dei raccolti dei campi. Donne impegnate sempre e solo "al fare", che fino agli ultimi giorni della loro esistenza tenevano in mano gli aghi per fare calze e maglie. E, nello stesso tempo, ho conosciuto qualcuna delle prima donne diventate "manager" di alberghi e di strutture artigiane: davanti ai miei occhi veri "personaggi/capolavori" di donne solerti ed impegnate nel riuscire a fare ed a gestire ogni loro iniziativa con molta più avvedutezza ed impegno di qualche uomo.
Ma di queste donne non vi è traccia nei libri; gli uomini si sono impegnati a scrivere solo ciò che loro stessi hanno vissuto e fatto, lasciando nell'anonimato - come dice il titolo del progetto giudicariese - la presenza femminile che, tuttavia, è sempre stata necessariamente alle spalle di qualsiasi attività l'uomo abbia saputo e potuto realizzare. E non è così anche oggi? Ma pochi scrittori ne hanno saputo trovare la presenza e le tracce; tanto meno i mass-media che si soffermano maggiormente sulla presenza della donna per ben altri suggestivi richiami per i superficiali lettori. La donna/donna, la donna che silenziosamente assicura la continuazione della famiglia e dell'umanità, ed è costantemente alle spalle di ciascun uomo, è lasciata - come da sempre - nell'ombra del silenzio e della dimenticanza. Della "riconoscenza" verso la donna poi... non se parla affatto.
Quell'illuso del Musón